Giovedì, 27 Novembre 2008 00:00

A MATERA NON "SI PUO' FARE"

Riceviamo dal presidente dell’associazione Mutamenti a Mezzogiorno Michele Morelli e pubblichiamo Il 30 ottobre al festival del cinema di Roma nella sezione fuori concorso è stato presentato il film di Giulio Manfredonia “Si può fare”. Ispirato a una vicenda vera, il film racconta una storia di speranza attraverso la sfida di Nello, un sindacalista interpretato da Claudio Bisio, che nella prima metà degli anni ottanta viene mandato a dirigere una cooperativa di pazienti psichiatrici ex ospiti di un ospedale psichiatrico fuoriusciti in seguito alla legge Basaglia (la famosa legge 180/78). Trovandosi a stretto contatto con i suoi nuovi colleghi e scovate in ognuno di loro delle potenzialità, decide di “umanizzarli” coinvolgendoli in un lavoro di squadra...

A MATERA NON "SI PUO' FARE"

Riceviamo dal presidente dell’associazione Mutamenti a Mezzogiorno Michele Morelli e pubblichiamo

Il 30 ottobre al festival del cinema di Roma nella sezione fuori concorso è stato presentato il film di Giulio Manfredonia “Si può fare”. Ispirato a una vicenda vera, il film racconta una storia di speranza attraverso la sfida di Nello, un sindacalista interpretato da Claudio Bisio, che nella prima metà degli anni ottanta viene mandato a dirigere una cooperativa di pazienti psichiatrici ex ospiti di un ospedale psichiatrico fuoriusciti   in seguito alla legge Basaglia (la famosa legge 180/78). Trovandosi a stretto contatto con i suoi nuovi colleghi e scovate in ognuno di loro delle potenzialità, decide di “umanizzarli” coinvolgendoli in un lavoro di squadra. Andando contro lo scetticismo del medico psichiatra che li ha in cura. Nello “integra” nel mercato i soci della Cooperativa con un'attività innovativa e produttiva. Questo, in estrema sintesi, è il cuore narrativo del film. E’ la storia vera di una cooperativa sociale, i cui soci sono persone strane, ognuno dei quali portatore di anni di istituzionalizzazione manicomiale, nata agli inizi degli anni ottanta a Pordenone.   Un progetto germogliato all’interno del Centro di Salute Mentale il cui obiettivo era promuovere l'inclusione sociale dei “matti” attraverso l’inserimento lavorativo. Il lavoro come strumento terapeutico. Un bel film che tratta temi delicati tutt’altro che superati, il disagio mentale e il lavoro . In questo momento di grande difficoltà in cui il lavoro scarseggia, fare il punto sull’inserimento lavorativo di persone portatori di problematiche psichiche sembrerebbe fuori luogo, ma non lo è affatto. Il lavoro è utile e necessario per tutti e, oltre ad essere strumento di emancipazione economico, è anche, in particolari circostanze, come abbiamo già detto, terapeutico. Il lavoro come strumento di socialità, per sentirsi parte di un progetto di comunità, il cui valore aggiunto è la produzione di bene/essere.    Oggi la cooperativa “Noncello” di Pordenone, a distanza di quasi trent’anni, continua la sua missione sociale. E’ diventata una grande impresa con più di seicento soci e un fatturato di circa dieci milioni di euro. “Si può fare” dimostra infatti che con la fiducia, l’attenzione, il lavoro e la fantasia si possono fare tante cose, anche trasformare dei malati di mente in un azienda che funziona. Un esperienza analoga è stata fatta anche qui da noi, nella nostra città. Alla metà degli anni novanta, con dieci anni di ritardo rispetto alle prime esperienze nel nord Italia, alcuni operatori volenterosi del dipartimento di salute mentale misero in piedi una delle prime cooperativa sociale di tipo “B” del sud. Grazie alla legislazione regionale e alle politiche di inclusione sociale avviata dall’amministrazione comunale alla fine degli anni novanta, la cooperativa è cresciuta ed ha potuto sperimentare i primi inserimenti lavorativi. Le cose, se pure con i chiaroscuro,   sono andate   avanti fino a dicembre di un anno fa. La cooperativa gestiva per conto del comune alcuni bagni pubblici, parchi urbani, il parcheggio di via casal nuovo, per un budget poco più di duecento mila euro. Nella cooperativa avevano trovato lavoro un discreto numero di lavoratori con  disagio psicosociale. Una piccola pattuglia di cittadini molti dei quali fino ad allora non avevano mai firmato un contratto e ricevuto una busta paga. Alcuni di loro in questi anni hanno avuto il coraggi di rinunciare anche all’assegno vitalizio di invalidità. Alcuni di loro cominciavano a pensare a un progetto di vita diverso e svincolato dalla famiglia di origine. A pensare, che forse era possibile anche per loro realizzare una famiglia. Purtroppo, dopo molti anni, questa interessante ed inedita esperienza di collaborazione con il comune di Matera, si è conclusa nel peggiore dei modi. L’ esperimento è cessato probabilmente non per inefficienza delle prestazioni rese dalla cooperativa e dai suoi soci lavoratori, ma, molto banalmente, per ragioni ideologiche. La nuova amministrazione ha ritenuto dare un segnale di discontinuità rispetto al passato. La parola d’ordine è stata chiudere l’esperienza con la cooperativa sociale in quanto colpevole, a loro dire, di essere stata “agevolata” “favorita” “facilitata” dalle amministrazioni precedenti di centro sinistra. Che la cooperativa sia stata “agevolata” “favorita” “facilitata” non c’è dubbio. La legislazione europea, nazionale e regionale, sostiene e favorisce questo tipo di impresa sociale, anche con il ricorso ad affidamenti diretti. Infatti, gli enti pubblici possono riservare una quota parte dei servizi esternalizzati a cooperative sociali di tipo “b” che hanno come finalità l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. A partire dal 2001, in piena sintonia con il quadro normativo nazionale ed europeo, con il piano socio assistenziale regionale e comunale, il nostro comune ha avviato i suoi primi progetti di inserimento lavorativo. L’obiettivo del piano sociale di zona, approvato all’unanimità dal consiglio comunale nel dicembre del 2000, era ed è quello di destinare a questa finalità il 5% dei servizi esternalizzati. L’attuale amministrazione, invece di implementare, con nuove opportunità, gli inserimenti lavorativi, ha pensato bene di chiudere questa esperienza senza “paracadute”. Mandando a casa molti lavoratori, con nessuna tutela o speranza di essere riassorbiti da una eventuale impresa subentrante alla gestione dei servizi comunali (a differenza di quello che succede normalmente quando cambia la ditta concessionaria). E’ passato un anno e questi lavoratori hanno perso qualsiasi aspettativa, la cooperativa sociale è troppo debole per offrire loro altre possibilità. Nessun sindacato si è posto il problema di questi lavoratori, né è stato posto dagli operatori dei servizi sociali del comune o sanitari delle Asl. Quest’ultimi non possono far altro che distribuire parole di conforto e qualche psicofarmaco in più. E’ da molto che non li vediamo più in giro per la città, e c’è da preoccuparsi. Intanto Maria, in queste ultime settimane, ha preso posizione davanti alla chiesa di santa Lucia, in pieno corso cittadino, con un piccolo cartello e un cestino tra le mani, ha ripreso, dopo quasi dieci anni, con grande dignità, a chiedere l’elemosina.
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