Abbiamo appreso tutti che l’intera nazione è una entità geologica (e non solo geopolitica) ballerina e che alle faglie emiliane che si aprono rispondono, in termini di scosse, quelle calabro-lucane. Davanti agli occhi abbiamo la devastazione di interi comparti agroindustriali. Sono inagibili centinaia di capannoni, è compromessa buona parte della produzione del parmigiano (si parla di dieci milioni di danni, in euro) e dell’allevamento, della ceramica, della fiorente industria dei prodotti farmaceutici, per non dimenticare le aziende motoristiche. La quantificazione del danno si attesterebbe nella perdita di un intero punto percentuale del Prodotto interno lordo italiano. I palazzi dei centri storici sono stati rasi al suolo e gli sfollati sono oltre quindicimila. C’è da preoccuparsi, soprattutto perché abbiamo appreso che la Carta nazionale del rischio sismico va interamente riscritta e, come è prevedibile, ci vorranno tempo, denari e competenze. Per una volta riusciamo a buttar giù l’aumento di due centesimi di accise sulla benzina. Bisogna ricostruire quel tessuto produttivo dove, tra l’altro, sono impegnate le braccia e i cervelli di migliaia di nostri emigrati. La Basilicata, nel suo piccolo, si è già attivata, i suoi sindacati si stanno mobilitando, le due Prefetture hanno, praticamente cancellato gli impegni celebrativi previsti per la Festa della Repubblica. L’imperativo deve essere quello della solidarietà, insieme al cordoglio per chi è scomparso.