Domenica, 08 Giugno 2008 00:00

MEZZOGIORNO: CAPIRE RIFLETTERE DECIDERE

Riceviamo dal sen. Salvatore Adduce e volentieri pubblichiamo Il rischio che si corre nel dibattito sul Mezzogiorno che si è fortunatamente aperto è di guardare indietro piuttosto che avanti. Proporrei di suddividere il dibattito in due grandi filoni: quello storico, da cui attingere per comprendere pregi e difetti di un lungo periodo della storia recente italiana che va dal secondo dopo guerra fino agli anni novanta del secolo scorso e che volentieri bisognerebbe lasciare alle cure degli storici e degli studiosi della materia e quello incombente che interessa i giorni nostri. Non c’è dubbio che gli ultimi anni del ‘900 misero in luce una spiccata incapacità di aggiornamento da parte delle classi dirigenti dell’analisi sul mezzogiorno e più in generale...

MEZZOGIORNO: CAPIRE RIFLETTERE DECIDERE

Riceviamo dal sen. Salvatore Adduce e volentieri pubblichiamo

Il rischio che  si corre nel dibattito sul Mezzogiorno che si è fortunatamente aperto è di guardare indietro piuttosto che avanti. Proporrei di suddividere il dibattito in due grandi filoni: quello storico, da cui attingere per comprendere pregi e difetti di un lungo periodo della storia recente italiana che va dal secondo dopo guerra fino agli anni novanta del secolo scorso e che volentieri bisognerebbe lasciare alle cure degli storici e degli studiosi della materia e quello incombente che interessa i giorni nostri. Non c’è dubbio che gli ultimi anni del ‘900 misero in luce una spiccata incapacità di aggiornamento da parte delle classi dirigenti dell’analisi sul mezzogiorno e più in generale sull’Italia. Non a caso gran parte delle forze politiche cui appartenevano quelle classi dirigenti sono praticamente scomparse. Oggi la situazione è più complessa e al tempo stesso resa più urgente dalla drammatica condizione in cui versa il Sud. Innanzitutto gli interventi a favore delle aree bisognevoli di coesione (così vengono chiamate in gergo comunitario le aree sottosviluppate) devono fare i conti, nel bene e nel male, con le normative dell’UE. Si pensi soltanto al discutibile indice del 75% del PIL medio europeo per aver diritto all’inserimento nell’obiettivo 1, dal quale appunto la Basilicata è uscita. Non c’è alcuna possibilità, come è accaduto per alcuni decenni, di ricorrere allo “Stato imprenditore” per realizzare investimenti che sono affidati alle dinamiche ordinarie del mercato che nel mezzogiorno nonostante brillanti eccezioni stenta a farsi strada. E nonostante sulle nostre regioni continui a riversarsi un grande flusso di finanziamenti pubblici attraverso i fondi europei e il bilancio statale i risultati sono scarsi e comunque insufficienti a risolvere i gravi ritardi dell’economia meridionale. Ma allora  non è il caso di cominciare a domandarsi se non sia venuto il momento di utilizzare, come ha detto Luca Bianchi, vice direttore della Svimez, nella recente conferenza del Laicato Cattolico delle Diocesi di Basilicata, una “nuova chiave di interpretazione? Mi pare stucchevole - dice Bianchi - parlare ancora di questione meridionale o di questione settentrionale; quello che conta è solo rivolgere l’attenzione ad alcune cose concrete, chiare e strategiche che devono diventare una priorità nazionale e su cui bisogna appostare le necessarie risorse”?  La stessa metodologia utilizzata di confrontare il Mezzogiorno con il Centro-Nord sembra ormai poco utile. “Si tratta di due mondi diversi, appartengono allo stesso Paese, ma sono distinti nelle loro dinamiche”. Piuttosto il Mezzogiorno andrebbe confrontato con le altre aree deboli dell’Europa, perché più simili per caratteristiche strutturali e perché la nostra vera competizione è con le aree europee e mediterranee.  Né va accreditata l’idea, che ha abbagliato persino molti esponenti del PD ed una buona parte del nostro partito al Nord che della crescita settentrionale si avvantaggia l’intero Paese e quindi anche il Sud. “La verità è esattamente all’opposto - dice Bianchi - tutti i nuovi modelli di sviluppo e la sfida della competizione internazionale richiedono la crescita delle aree deboli”. Come è avvenuto in Grecia, Spagna, Irlanda, Germania che in pochi anni hanno ottenuto risultati entusiasmanti. Dunque il confronto va operato tra aree e territori simili in Europa. Perché la classe dirigente del Mezzogiorno non riesce a imprimere un diverso indirizzo alla politica nazionale? Non mi riferisco ovviamente soltanto alla fase attuale ed al rapporto con l’attuale governo. Si parla di un paese “impoverito e disarmato” ed E. G. Della Loggia definisce il Sud senza voce. In verità, la classe dirigente meridionale deve riconquistare credibilità. Ed io penso che questo sia possibile attraverso il metodo “del fare”, fare cose concrete a cominciare dalla di mobilitazione del capitale umano di cui è tanto ricco il Sud. Credo in definitiva che la risposta ai problemi non possa avvenire dentro un laboratorio asettico. E’ indispensabile, come tante volte è accaduto, cercare la forza nella partecipazione e nella mobilitazione di energie, intelligenze che devono essere messe a disposizione di un progetto di rinascita. La politica del “fare” richiede da parte dei diversi attori nuove responsabilità che si devono esprimere in progetti e investimenti in ogni settore. Le vicende di Napoli, la diffusione della criminalità organizzata, la stessa ricerca affannosa spesso esclusiva del consenso da parte del ceto politico, lascerebbero poco spazio all’ottimismo. Ma ciò non esclude che ognuno di noi nel proprio ambito d’azione operi per imprimere più dinamismo e innovazione. La Basilicata può sottrarsi dal vortice della generale depressione meridionale per rappresentare un esempio virtuoso. E non perché siamo un’isola felice. Anche qui da noi pesa il grande divario tra spesa pubblica e risultati. Persino più difficile è lo stato strutturale dell’economia e delle imprese lucane, senza considerare le enormi difficoltà del settore salotti e il perdurare delle crisi di aree industriali come la Val Basento e la dipendenza del nostro export da un unico stabilimento, la Fiat. La Basilicata, però, non soffre delle “emergenze” che affliggono le altre regioni e proprio per questo il divario esistente non è comprensibile se non considerando con la necessaria severità le scarse opportunità che vengono offerte ai giovani (il capitale sociale, appunto). La Basilicata è al 1° posto in Italia per istruzione superiore ed all’8° per quella universitaria. Mentre è al 19° posto per accesso al mercato del lavoro! E registriamo una ripresa dell’emigrazione che indebolisce ancor più il territorio che già soffre il difficile strutturale problema demografico. Cosa intendiamo offrire a queste persone? La Regione fa quello che può. I recenti segnali che vengono dal governo regionale sono incoraggianti. Si è messo mano alle riforme della governance ed è stata impostata finalmente una politica industriale. Ma davvero pensiamo che la Regione sia in grado di assolvere ad un compito  così gravoso? E’ necessario che la politica, a cominciare dal più grande partito lucano, il PD, si faccia carico di organizzare un grande movimento di lotta (possiamo usare questo termine?) per l’occupazione e lo sviluppo. Coinvolgendo i sindacati, gli imprenditori, i professionisti e soprattutto tanti giovani laureati e diplomati in cerca di lavoro, sbocchi professionali ed imprenditoriali, insieme alle tante organizzazioni sociali (laiche e cattoliche) che animano il territorio. In questo progetto il PD nazionale deve offrire un contributo vero piuttosto che lasciarsi abbagliare dalla “questione settentrionale”; costruendo insieme a noi un programma che chiami i rappresentanti nazionali delle organizzazioni industriali, agricole, del commercio, dei servizi, della cooperazione e del sindacato a discutere questi problemi.  Facciamo della Basilicata un esempio, come è già accaduto, di inversione di rotta di quello che a tanti sembra per il Mezzogiorno  un “destino cinico e baro”. Dunque è necessario utilizzare le immense risorse territoriali ed umane del Sud proprio nell’interesse dell’intero Paese. Per questo obiettivo sono indispensabili due novità: la costruzione di un movimento di giovani come forza organizzata di proposta e pressione; l’assunzione di un ruolo nuovo delle organizzazioni imprenditoriali, professionali, sindacali, cooperative e culturali per poter operare come centri di promozione di organizzazione e di attuazione di misure per nuovi sbocchi occupazioni, professionali e imprenditoriali femminili e giovanili.  Perciò urge l’apertura di un dibattito su questi temi promuovendo un Forum permanente per “capire, riflettere e decidere”come dice la Svimez.

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